Valerio Cruciani
biobibliografía
Cinema
Nel 2001 ho lavorato in un gruppo di giovani sceneggiatori per un film basato sul romanzo
di Italo Calvino Le città invisibili. Il film è stato diretto da Michelangelo Ricci con il sostegno
dell'Università di Roma "La Sapienza".
Nel 2002 sono stato selezionato dal premio Scriviromagiovane organizzato dal Premio Solinas
e dal Comune di Roma con un soggetto per cortometraggio.
Nel 2003 ho partecipato alla realizzazione del documentario Per non morire - Rifugiati a Roma
con C.B. Gentili, V. Doddi, A. Pagnotti, basato sulle storie di alcuni rifugiati. Il film ha vinto il
Roma doc festival, La città in corto, ed è stato selezionato dal Med film festival e Rai 3.
Nel 2005 ho realizzato con il regista Alessandro Aronadio un breve documentario su Egidio
Molinas Leiva intitolato Il ritorno dell'elefante; il corto è stato selezionato dal Premio Solinas
e proiettato a Roma e a Milano durante il Milano film festival.
Pubblicazioni di poesia
Nel 2003 sono stato selezionato come partecipante all'11a Biennale dei Giovani Artisti d'Europa
e del Mediterraneo (svoltasi ad Atene).
Dal 2003 ad oggi ho pubblicato diverse poesie su alcune testate come "Sagarana", "Daemon",
"El-Ghibli", "Treci Trg" (Serbia).
Nel 2005 ho pubblicato il mio primo libro di poesie intitolato Le città hanno gli occhi
sempre aperti con il progetto letterario indipendente St. Louis and Lawrence Books
(www.maledetto.it/stlouisandlawrencebooks). Nel 2007, con lo stesso progetto, ho pubblicato il
racconto breve Millennio, presentato al Festival Internazionale "Six Days Sonic Madness".
Nel 2006 sono stato invitato a partecipare al Festival Internazionale del Cortometraggio di Siena
con una poesia per la mostra fotografica di Matteo Barale sulla Festa del Cinema di Roma.
Nel settembre 2007 sono stato invitato a prendere parte alla residenza di scrittura e traduzione
letteraria organizzata a Malta da Literature Across Frontiers (con sede in UK) e al Malta
Mediterranean Literature Festival, organizzato in collaborazione con Inizjamed.
Pubblicazioni di prosa
Dal 2003 ad oggi ho pubblicato racconti e articoli su testate come "Carta", "Accattone
dei Piccoli", "Next Exit", www.terranullius.it
Nel 2005 sono stato segnalato dal premio letterario ALIAS di Melbourne (Australia) per la prosa
e la poesia. Dal 2000 ad oggi ho realizzato molte letture di miei lavori presso teatri, bar, librerie e festival
a Roma, Bologna, Padova, Treviso, Venezia (Piattaforma n°1, Ice-Z International festival
of esemplastic zappology, La Palma d'autore, Drink in Art), in collaborazione con diversi
compositori e musicisti.
Dal 2005 ad oggi ho organizzato due edizioni di "Ubureading", rassegna di poesia per il festival
di teatro indipendente Ubusettete di Roma.
Dal 2001 ad oggi ho scritto molti articoli e interviste (anche in spagnolo e inglese) per la rivista
www.amnesiavivace.it, su cinema, letteratura, cultura e società e fotografia.
Nel 2003, in seguito al laboratorio di drammaturgia sull'Oresteide, ho scritto il dramma Erinni,
rappresentato presso il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell'Università di Roma
"La Sapienza".
Attualmente sto lavorando al mio primo romanzo basato sulla vita di Egidio Molinas Leiva,
rifugiato politico paraguaiano. Collaboro inoltre con il fotografo Matteo Barale su progetti
di video arte, con l'associazione European Alterities di Londra per il Festival of Europe
e con il progetto Arte Joven della Comunidad de Madrid.
POÉTICA
Ho avuto la fortuna di ricevere il prezioso commento di un importante editore di poesia di Valencia, del quale per ora preferisco non riferire il nome, con il quale mi sento completamente in linea. In Italia non ho mai ricevuto tali osservazioni critiche. Piuttosto che elucubrare sulla mia propria scrittura, della quale mi riesce molto più facile parlare davanti ad una birra, cito la lettera dell’editore in questione alla quale non aggiungo nulla.“Credo che dalla sua lettura un lettore più o meno accorto possa concludere che si trova davanti ad un poeta interessante. Il tuo stile, a mio giudizio,è una mescolanza di procedimenti avanguardistici, diciamo “novísimos”, e di una poetica nata dal Pasolini più sperimentale. Le tue poesie aprono un ampio ventaglio di tematiche, che va dall’elegia culturalista fino al poema politicamente compromesso, tutto questo con degli usi linguistici che rendono manifesta la tua volontà di rottura, provocatrice. La tua proposta è, in grandi linee, molto attuale, postmoderna. Gli scenari delle tue poesie sono solitamente urbani, decadenti. Un’aria di protesta sociale scorre in loro. Il tuo italiano è ricco di sfumature e ironia, di parole colte e parole “in pantofole”, e tutto ciò sembra saggiamente incastonato in ritmi versatili, molto musicali anche quando sono molto discorsivi.”
Tuve la suerte de recibir el precioso comentário de un importante editor de poesía de Valencia, del cual ahora prefiero no decir el nombre,con el cual estoy totalmente en acuerdo. En Italia nunca recibí tales observaciones críticas. En vez de escribir yo mismo sobre mi propia escritura, de la cual me sale más facil hablar delante de una cerveza, prefiero mencionar la carta del editor a la cual no voy a añadir nada.
“Creo que de su lectura un lector más o menos avizorado puede concluir en que se enfrenta a un poeta interesante. Tu estilo, a mi juicio, es una mezcla de procedimientos vanguardistas, digamos, "novísimos", y de una poética nacida del Passolini más experimental. Tus poemas despliegan una temática amplia, que va desde la elegía culturalista hasta el poema políticamente comprometido, todo ello con unos usos lingüísticos que ponen de manifiesto tu voluntad rupturista, provocadora.
Tu propuesta es, a grandes rasgos, muy actual, postmoderna. Los escenarios de tus poemas suelen ser urbanos, decadentes. Un aire de protesta social discurre por ellos. Debo decir que, al menos en presunción, tu italiano debe ser muy rico, está lleno de matices e ironías, de cultismos y palabras de andar por casa, y todo ello parece sabiamente engastado en ritmos versátiles, muy musicales incluso cuando son muy discursivos.”
día de desolado,
inconmensurable amor
se muerde la empleada las uñas
colgada del vagón que zumba
alza los flacos ojos hundidos
por los días contraídos como enfermedades
vacilante se apoya un instante
sobre mis grandes hombros
colgado por un hilo de aliento
al vago bastón de hierro.
al peso de la muerta presencia
me agarro con los ojos azulados
a la etiqueta del reglamento:
"Está prohibido, Es obligatorio,
Hay que..."
después el pitido estridente de radio
el aullido helador de la última
rueda del último carro
y se abren las puertas de nuestro vagón.
termini.
su insípida figura de ya no mujer
delgada en su abrigo y en sus tacones
baja liberándome de su peso de muerta
despegando su sangre de la mía.
salgo con ella.
la sigo un poco con la mirada.
la pierdo en el hilo sanguiño de las escaleras mecánicas
María Antonia Ariza Gállego
giorno di desolato,
sconfinato amore
si morde l'impiegata le unghie
appesa al vagone che sfreccia
alza i magri occhi scavati
dai giorni contratti come malattie
ciondolante si appoggia un istante
alle mie spalle larghe
appeso per un filo di fiato
al vago bastone di ferro.
Al peso della morta presenza
m'aggrappo con gli occhi bluastri
all'etichetta del regolamento:
"E' vietato, E' obbligatorio,
E' doveroso..."
poi il fischio stridente di radio
l'urlo ghiacciante dell'ultima
ruota dell'ultimo carro
e s'aprono le porte del nostro vagone.
termini.
la scialba figura di lei non più donna
magra nel suo cappotto e nei suoi tacchi
esce liberandomi dal suo peso di morta
staccando il suo sangue dal mio.
esco con lei.
la seguo per un po' con lo sguardo.
la perdo nel cavo sanguigno delle scale mobili.
la estepa de los náufragos
salgo
te pliego
te llamo te guío
líquido transparente duro
como quieres
como quiero
te arrastro entre sodoma
y gomorra
dios mudo/dios faro
entre las bajezas/sobre la cruz
te amo te protejo
soy tú-en-jaula
fuera/dentro
espejo de lo que no eres
de lo que no soy
revoloteo/deslumbro
sobre el fondo
apenas percibido
estás
y no existes
mientras cultivo sudor
sobre mi cuerpo
Traducción:
María Antonia Ariza Gállego
la steppa dei naufraghi
esco
ti piego
ti chiamo ti guido
liquido trasparente duro
come vuoi
come voglio
ti trascino tra sodoma
e gomorra
dio muto/dio faro
tra le bassezze/sulla croce
ti amo ti proteggo
sono te-in-gabbia
fuori/dentro
specchio di quello che non sei
di quello che non sono
sfarfallìo/abbaglio
sullo sfondo
appena percepito
ci sei
e non esisti
mentre coltivo sudore
sul mio corpo
mediterráneo
traga en mi lugar tus lágrimas, mujer
traga todas las que puedas
mira hacia arriba e ingiérelas silenciosamente.
traga muchas más que tu sangre
conviértete en una salina de amor
triste, solitario, desconocido
mediterraneo
ingoia le tue lacrime per me, donna
ingoiane più che puoi
guarda l'uccellino e deglutisci silenziosa.
mandane giù più del tuo stesso sangue
diventa una salina d'amore
triste, solitario, sconosciuto
padres y madres
un padre es una voz filtrada por el muro
de noche, por la oscuridad
de la casa asesina
un padre es una voz siempre vigilante
zizaña entre tú y la casa
mala hierba homicida
un padre es una presencia indistinta
un cadáver sin misión
un ojo en la cerradura
una cámara escondida
una vergonzosa presencia indiscreta
que sabe, que ve, que habla
y un hijo es un amasijo
de escondites, que
nunca cambiarán el mundo
y lo tienen encadenado igual a sí mismo
un mundo de hijos innobles escondites
babosos, retraídos en su mísero prepucio
bajo la mirada chantajista del padre
que expone todo a verbal para la madre,
una madre araña una madre gueto una madre
buena pasta de almendras-trampa
una madre sello-y-firma
que todo lo sabe y todo lo prevé
la madre santa-puta
que espera el informe del padre espía
que nunca degustaráun bocado de eternidad
PADRI E MADRI
un padre è una voce filtrata dal muro
di notte, dal buio
della casa assassina
un padre è una voce sempre vigile
zizzania tra te e la casa
erbaccia omicida
un padre è una presenza indistinta
un cadavere senza missione
un occhio nella serratura
una telecamera nascosta
una vergognosa presenza indiscreta
che sa, che vede, che parla
ed un figlio è un ammasso
di nascondigli, quelli
che non faranno mai cambiare il mondo
e lo tengono incatenato uguale a se stesso
un mondo di figli ignobili nascondigli
bavosi, ritratti nel loro misero prepuzio
sotto lo sguardo ricattatorio del padre
che mette tutto a verbale per la madre,
una madre ragno una madre ghetto una madre
buona pasta di mandorle-trappola
una madre timbro-e-firma
che tutto sa che tutto prevede
la madre santa-puttana
che aspetta il rapporto del padre spia
che mai saprà
di un assaggio d’eternità
la política de la vela
llegan voces
habladurías subterfugios
susurros murmullos
ssssh silencio hablad bajo
de todas partes se reciben
voces interceptaciones
chantajes
cuidado sssssssssh hablad
bajo, acostumbráos al silencio
mails, mensajes, periódicos
correos repúblicas gacetas
alborotan por el miedo
de que uno grite antes
sssssssh crujidos
sugieren militares
golpecitos de mano, secretos
jorobados serviciales
extraños uniformes preparan
ssssssssh preparan ataques
preparan bombas y paquetes
entre las masas pero callad, callad
dejadles maniobrar
no serán votos tranquilos
no son años tranquilos
velad niños, velad
siempre en silencio, bajo el pupitre
y vigilad siempre
con libreta en el bolsillo
un bolígrafo es la espada
con la funda en la cabeza
suave suave, niños
en silencio bajo el pupitre
velad y escuchad
y cuando el primero grite y tenga miedo
saltad fuera con el dedo en los labios
y decid ssssssh a los compañeros
silencio: velad sobre las libretas.
//y la maestra os dejará
no hagáis llorar a la maestra que volváis a jugar en el patio.
la maestra os quiere,
volverá pronto,
sssssh venga, portáos bien//
POLITICA DELLA VEGLIA
giungono voci
dicerie sotterfugi
sottovoce bisbigli
ssssh zitti piano piano
da tutte le parti si ricevono
voci intercettazioni
ricatti
attenti sssh parlate
piano, abituatevi al silenzio
mail, messaggi, giornali
corrieri repubbliche gazzette
fanno chiasso per paura
che qualcuno strilli per primo
sssssssh fruscii
suggeriscono militari
colpetti di mano, segreti
gobbi servizievoli
strane divise preparano
ssssssssh preparano attacchi
preparano bombe e pacchetti
tra le folle ma zitti, zitti
lasciateli manovrare
non saranno voti tranquilli
non sono anni tranquilli
vegliare bambini, vegliare
sempre in silenzio, sotto il banco
e vigilare sempre
con un taccuino in tasca
una penna è una spada
dal fodero della testa
piano piano bambini
piano piano sotto il banco
vegliate e ascoltate
e quando il primo grida e ha paura
saltate fuori col dito sulla bocca
e dite ssssssh ai vostri compagni
silenzio, e vegliate sui taccuini.
ora non fate piangere la maestra //che poi la maestra vi farà giocare in cortile
la maestra vi vuole bene di nuovo
e presto tornerà
sssssh forza, su, fate i bravi//
...........
que es una entera generación.
la luna está aplastada
demasiado baja, desde la acera tratas
de levantar la
mirada, pero sería
más digno ahogarla
en un charco
fangoso, donde cabe la entera luna
y se prefigura el Infierno.
Resultan después de todo
chirridos de frenos y miradas
de amianto.
abajo, desde las plateas de los edificios
hasta más abajo del metro, botecitos
de pastillas y gotas
en una ciudad de dolor.
entre delgados asaltantes de monos
tarzán es una puntuación
continua entre liana y liana,
sacrilegio;
flores y sangre que secar
fuera de los balcones
lámparas y voces de la tele
neveras lavadoras aspiradoras
en diálogo mudo
bolas de fuego entre las bocas,
charcos de licor,
basura y aviones.
luego
una muda, tímida prefiguración
de gloria a la cual agarrarse
para balancearse entre una manzana y otra
en la continuidad del cemento
de este único pensamiento
que conoce sólo a sí mismo.
..........
di notte sollevarsi da questa miseria
che è un’ intera generazione.
la luna è schiacciata
troppo in basso, dal marciapiede cerchi
di sollevare lo
sguardo, ma sarebbe
più dignitoso annegarlo
in un laghetto
fangoso, capace dell'intera luna
e prefigurarsi l’inferno.
restano dopo tutto
stridori di freni e sguardi
d’amianto.
giù, dalle platee dei palazzoni
fin sotto al metrò, flaconcini
di pillole e gocce
in una città di dolore.
tra snelli assalitori di scimmie
tarzan è una punteggiatura
continua tra liana e liana,
sacrilegio;
fiori e sangue ad asciugare
fuori dai balconi
lampade e voci di TV
frigoriferi lavatrici aspirapolveri
in dialogo muto
palle di fuoco tra le bocche,
pozze di liquore,
spazzatura e aeroplani.
poi
una muta, timida prefigurazione
di gioia alla quale aggrapparsi
per ciondolare tra un isolato e l'altro
nella continuità di cemento
di quest'unico pensiero
che conosce solo se stesso
Festival di poesia di Belgrado Trgni Se 2
dal 7 al 13 settembre 2008.
È il 6 settembre. Da Madrid a Belgrado non ci sono voli diretti, così devo scendere un paio di giorni a Roma. Disordinata, sporca, caotica, basta girare un po’ per sentire ovunque mucchi di giovani che si scambiano racconti sulle loro vacanze in Spagna. E d’altronde a Madrid, in pieno agosto, bastava fare due passi per sentirsi circondati da italiani.
All’aeroporto di Fiumicino ci sono due piccioni che passeggiano nel ristorante del primo piano, uno scarafaggio schiacciato davanti ai banchi dei check-in dell’Alitalia con le sue piccole valigie ugualmente sfracellate accanto. Persona non grata, evidentemente. Un politico o un uomo d’affari di qualche banca in crisi.
Sto andando a Belgrado, ospite del festival di poesia Trgni Se, seconda edizione, organizzato dalla redazione della rivista letteraria "Treci Trg" (cfr. intervista in Amnesia Vivace, n° 21). È la prima volta che ho l’opportunità di andare dall’altra parte della cortina di ferro, vedere l’altra Europa e in particolare i Balcani, la Serbia, l’ex Yugoslavia.
Appena arrivato, Boris e Sonja portano me e Kristin, l’ospite norvegese, a cercare la tipografia dove ritirare le cartoline del festival. Tra patatine, sigarette e succhi di frutta, in mezzo ad un traffico infernale, puzza di benzina super, palazzoni grigi, tram verdi, zingari che fanno l’autostop lungo il ciglio di strade di campagna sporche e circondate da bassi caseggiati finiti solo a tratti, giardini abbandonati, cartelli pubblicitari enormi, strade sconosciute e a volte sterrate, donne che raccolgono cartone coi loro carretti con enormi blocchi di cemento sullo sfondo, popolati da panni stesi fuori e antenne paraboliche, macchine vecchie mai viste in occidente e macchine nuovissime che invece conosciamo benissimo. In mezzo a tutto questo, non troviamo la tipografia, così rinunciamo e ci dirigiamo verso la Casa della Poesia (Stari Grad Kulturni Centar), per partecipare all’inaugurazione del festival. Vengo da subito introdotto alle tradizioni locali, Boris mi fa bere a stomaco vuoto un bicchiere di slibovica (si pronuncia sliboviza). L’atmosfera è cordiale e accogliente fin dal primo momento, a parte il caldo infernale e l’umidità insopportabile. I muri grigi, i palazzi anneriti e scrostati, i vecchi elettrodomestici e i cortili sbiaditi intorno a case modeste, umili.
Si va a cena al Cafè Biblioteka, punto impeccabile dell’organizzazione: un caffè in pieno centro, vicino all’ostello, in cui ci riunivamo a colazione, pranzo e cena.
Il secondo giorno ho l’opportunità di fare un primo giro da solo, vado sulla via centrale, un’area pedonale turistica, con le grandi firme, antichi palazzetti ripuliti e impeccabili, terrazze e chioschi che vendono cartoline e spillette, "Yugoslavia for ever", qualcosa su Milosevic, altre cose contro l’Europa, gruppi musicali, ecc. La storia e la politica che si fanno folklore da souvenir. I giovani sono diversi, a loro piace la nostra moda e le ragazze in particolare stanno perdendo ogni pudore. Queste cose non sono mai graduali: Boris mi ha detto che c'è una zona qui in centro soprannominata "Silicon Valley". Non per la tecnologia ma per il numero di donne che si rifanno le tette! E in effetti...
Nel mercatino alcune bancarelle che vendono memorabilia militari e oggettini vari esponevano un cartellino che diceva qualcosa come "Non vendiamo agli europei" o forse "Non vendiamo cose europee". In fondo alla strada, altre bancarelle che vendono artigianato e anziane signore sedute a terra, vendono i loro grandi uncinetti mentre ne preparano altri davanti ai passanti. Oltre il semaforo, un parco che circonda il Kalemegdan, un’antica fortezza di origine turca o addirittura romana. Gli alberi mangiati dall’incuria e le foglie secche a terra sono i segni tangibili di questi ultimi anni di incuria, però donne e uomini che passeggiano o chiacchierano seduti sulle panchine, con i loro abiti modestissimi, e un gruppo di studentesse con la loro professoressa sedute a discutere qualcosa riguardo a un libro, beh tutto questo ti fa sentire che la vita è tornata a scorrere.
Quello stesso pomeriggio andiamo al Pen Center per la conferenza stampa d’apertura, ci sono giornalisti di radio e tv locali e nazionali, ci intervistano, ascoltano con grande interesse, domandano con trepidazione sul rapporto tra poesia e politica, vogliono sentire il nostro punto di vista su Belgrado (cosa che sembra essere per loro di vitale importanza). Ognuno di noi partecipanti (altro punto a favore dell’organizzazione) è accompagnato da una traduttrice e interprete, così che durante le interviste o le letture nessuno deve sentirsi obbligato ad arrampicarsi sugli specchi dell’inglese.
Dopo l’intervista, una passeggiata con Kristin lungo la via Aleksandra, dove ci sono facoltà e biblioteche, negozi, semafori, clacson, traffico, fumo, un uomo che copia chiavi nella sua automobile-officina, autobus strapieni donati dal Giappone, ragazze eccessivamente provocanti, gente che non smette mai di popolare la strada, martelli pneumatici, cantieri aperti, la grande casa del Presidente e il palazzo delle Poste, austero ed imperioso, caldo infernale, una macchina sul marciapiede fa da vetrina per un venditore di abitini per bambini, i colori delle vetrine d’abbigliamento non sono sempre sgargianti, i marciapiedi sono un brulichio di kebab, hamburger e forni con prodotti a portar via, giusto un bancone su strada, una cassa e clienti ammucchiati.
Dopo una lettura nella Casa della Poesia, andiamo in un locale spagnolo chiamato Casa Garcia. È relativamente vicino al fiume, di notte quei vicoletti e quelle scale sembrano gli spettri di vecchi stabilimenti balneari abbandonati, tettoie di ferro arrugginito, colonne piene di manifesti, sottopassaggi con tubi al neon che pendono storti sulle teste dei passanti. A Casa Garcia conosco Jairo, un ragazzone della Galizia che vive a Belgrado lavorando come traduttore e interprete. Si dichiara nazionalista galiziano, che crede in una Spagna fatta di piccole nazioni indipendenti, con la loro lingua ufficiale e la loro burocrazia locale, non appoggia il terrorismo e sostiene che sbaglia chi definisce se stesso, la propria identità, a partire dal disprezzo per l’altro.
Parlando della Galizia, dice che lì uno dei valori intoccabili è evitare che qualcuno passi la fame. E mi racconta la storia di una vecchia signora che trova due rumeni a rubare nel suo pollaio, e invece di sparargli li invita a cenare in casa. Quando la polizia se li porta in questura, lei continua a fargli visita portandogli vivande preparate. In effetti se entrate in qualsiasi ristorante galiziano vi renderete conto che per loro non è concepibile lesinare sulle porzioni.
Parla molto anche della situazione politica nell’ ex Yugoslavia, sostenendo che l’odio e i nazionalismi sono stati imposti da certi sistemi di potere, soprattutto durante e dopo le guerre degli anni ’90, e che nella maggior parte dei casi la gente continua a rispettarsi, talmente sono fitte le trame di interrelazioni tra un popolo e l’altro, tra un’etnia e l’altra.
Dopo un paio di slibovica ce ne andiamo. Il giorno dopo ho una mattina libera, e ne approfitto per fare un altro giro per Belgrado e per vedere il fiume. Ci sono due fiumi che circondano la città: il principale e più grande è il Danubio, l’altro, un suo affluente, è il Sava. I fiumi sono attraversati da lunghi ponti di ferro e cemento, lungo le strade che percorro per arrivare al Sava vedo vecchie case di mattoni sporchi accanto a vuoti palazzoni di cristallo, una chiesa ortodossa, la mia prima chiesa ortodossa, con il suo grande spazio vuoto, l’icona del santo al centro, il largo lampadario che pende dal soffitto e un paio di persone che pregano in piedi. Scendo per vicoletti, gli zingari trasportano cartone o ferraglia su carrelli spinti a pedale o con piccoli e vecchissimi trattori che trainano carrellini gialli ammaccati; arrivo al porto di Belgrado, una lunga banchina con barche attraccate, il fiume sembra una camicia aperta con i bottoni ai due lati, c’è una ferrovia piena d’erba tra i binari, un passaggio a livello controllato da due uomini che giocano a carte, un’anziana signora addormentata alla fermata del bus che vende centrini fatti a mano.
Per caso riesco a trovare una piccola imbarcazione che presta servizio lungo il fiume. L’esperienza del giorno, la barchetta che sognavo di prendere, un gruppo di ragazzini che facevano il corso di guida nautica, attratti e incuriositi dalla presenza di uno straniero occidentale, italiano. Mi circondano, fanno domande, sorridono apertamente, vogliono sapere come si dice "fica", parlano di calcio, le loro squadre favorite sono la Juve e l’Inter, io però non capisco niente di calcio: solo in questi casi mi pento di non aver mai voluto imparare niente che avesse a che fare con quello sport. Anche loro mi chiedono cosa ne penso di Belgrado, loro non hanno mai viaggiato, sono quelli che come i loro genitori e i loro fratelli maggiori, un giorno andranno a fare lunghe file fuori dai consolati per ottenere un visto e fare finalmente un viaggio, visitare qualche altra città. Uno di loro indossa una maglietta con la faccia di Mladic, il criminale ancora ricercato dopo l’arresto di Karadzic, e mi insegnano un motto nazionalista (tutto questo dopo una breve discussione sul Kossovo): "Fuck Cola and Pizza, we just want Slibovica!"
Intanto sulle nostre teste passano ponti di ferro rosso con uomini aggrappati che lavorano con enormi e rumorose pompe di vernice per ringiovanirli un po’, qualcuno si bagna nel fiume, la città si allontana e noi ci addentriamo nella parte boscosa del fiume. Lungo le rive file interminabili di case galleggianti.
Nel pomeriggio ritrovo quella stessa pace in un cortile del rettorato, un largo spazio quadrato pieno di alberi alti, tigli o platani, in pieno centro però completamente isolato dal caos. Mi ci ha portato Serdan, un vecchio amico scrittore dei tempi della Biennale di Atene. Mi spiega che i nazionalisti sono una ristretta minoranza di serbi che non sanno come superare il trauma della guerra persa, dei bombardamenti delle forze straniere, della NATO, cercano un senso e uno sfogo, e poi mentre fatico per svuotare una birra, me ne offre un’altra, aggiungendo: "Ricorda che sei venuto qui con due gambe!". Arrivato quasi alla fine della seconda, provo a lasciarne un po’, ma Serdan sorridendo con la sigaretta sempre accesa, mi dice: "Non lasciare il male in casa!".
Il giorno dopo l’esperienza appuntata in rosso non è la lunga intervista alla radio "Studio B", al 22° piano del Palata Beograd. Il giorno dopo l’esperienza sanguinante è stata passare con un autobus in una via del centro e scoprire dai finestrini, nel caldo e tra le teste e le spalle della gente che lo riempiva, che ci sono ancora due grandi edifici distrutti dalle bombe. Si apre in un momento una cicatrice fulminante. Tornerò lì davanti, da solo, un paio di giorni dopo, per fare delle fotografie e per credere davvero a quello che ho visto.
Dopo l’intervista ho avuto l’opportunità di fare una lunga passeggiata con Ivana, la traduttrice, appassionata d’Italia, che mi porta a visitare l’enorme chiesa di San Saba, la chiesa ortodossa più grande d’Europa e forse del mondo. Dentro è ancora una grande cava di cemento grigio lungo i cui bordi si possono però apprezzare le decorazioni bianche già collocate. In un’atmosfera sospesa e irreale, un gruppo di una trentina di militari prega stretto intorno all’icona centrale, mentre il sacerdote intona un canto liturgico. Quando usciamo, noto che Ivana esce camminando al contrario: mi spiega che per tradizione gli ortodossi abbandonano la chiesa facendosi il segno della croce mentre continuano a rivolgere lo sguardo verso l’icona del santo e il crocifisso. Poi deve scappare a casa perché con la sua coinquilina sta aspettando l’elettricista. Sono molti, in questo povero Paese mediterraneo, i giovani che vivono per conto proprio.
Quando torno a fotografare l’edificio bombardato, una guardia esce e in inglese mi dice che è proibito fare foto. Me lo dice con garbo, senza insistere. Qui le leggi, come mi ha detto Boris il primo giorno, sono cose relative, che si rispettano ma che si applicano con una certa flessibilità. Poi ripenso a quello che mi aveva detto Serdan: nella parte intatta dello stesso edificio, un palazzo governamentale dell’epoca di Milosevic, la stessa NATO ha installato i suoi uffici. Una tetra e pianificata ironia. In ogni caso il trauma della vista, la vita che scorre normale lì tra quelle strade, la gente che si muove nel traffico fissando questo straniero che guarda amareggiato quello scempio… Tiro fuori di nuovo la macchina fotografica e continuo a scattare con il cuore rotto e il respiro spezzato.
Me ne vado verso l’ostello, e approfitto per camminare in mezzo a strade della vera Belgrado, lontana dai circuiti turistici, strade strette e in salita, tristi e polverosi negozi di stoffe, scarpe nere stile anni ’50, panini, kebab, forni, piccoli piazzali abbandonati con macchine dai vetri rotti, paraboliche arrugginite sui balconi, palazzi grigio-neri e scrostati, i giovani che incrocio portano addosso i colori che ha perso la città.
Quando sbuco di nuovo nella strada principale, finalmente mi rendo conto di quali sono quei due dettagli che fanno la differenza tra Belgrado e le città a cui sono abituato: non ci sono mendicanti per strada, e la cosa mi sorprende, dato l’alto tasso di povertà. Secondo, qui non ci sono bar con il bancone per prendere qualcosa in piedi e andarsene, e tra tutti i bar che ci sono, sono pochi quelli che ancora fanno caffè turco, perché è quello che piace meno agli stranieri.
Il giorno dopo sperimentiamo il calore del pubblico. Gli organizzatori noleggiano un minibus e ci portano in tour fuori Belgado, tra Indjia, Sremski Karlovci e Novi Sad, in una pianeggiante e verde provincia chiamata Voivodina. In ogni città leggiamo in scuole e centri culturali, a Indjia, in un teatro con un centinaio di studenti delle scuole medie, piovono applausi e partecipazione, i ragazzi ascoltano interessati, alcuni sbadigliano o ridono, e poi una volta finito saltano sul palco con i loro quaderni aperti per chiederci autografi. Qualcuno di loro sapeva qualche parola di italiano, ed erano contenti di dimostrarlo. Questa che segue è una poesia che ho letto in più occasioni durante il festival.
dalla piccola radio sulla finestra della scuola
arrivavano le guerre
rompeva la yugoslavia
le sue uova di coccodrillo
sdraiato tra i campi del mio paese
vedevo come i caccia sorvolavano i nostri cieli
la guerra della porta accanto, la chiamavano
dove altri si stesero per sempre tra i fiori di fuoco
c’erano i buoni e i cattivi
i morti e i palazzi distrutti e i cecchini
c’ero io sdraiato su quei prati
e altri davanti alla finestra della scuola
il campanile che tremava
e i caccia che esplodevano oltre il muro del suono.
ora con un volo civile
il caso mi porta oltre quel pezzo di adriatico
a vedere dove ho scaricato le mie bombe
come ho dischiuso quelle uova
ora che quella scuola è chiusa
ed ora che non mi stendo più tra quei campi
a guardare il cielo azzurro e le forme delle nuvole
ora raccolgo quei fiori o suono le campane a lutto,
senza più quei tuoni che spaccavano il tetto dell’inferno
Il successo del nostro tour è talmente evidente, che un uomo sui 60, alto, grande, con un completo blu e un cappello nero, barba fina bianca e occhi azzurri che si aprono come quelli di un pazzo o di un demonio illuminato, sale sul nostro minibus e ci segue in ogni tappa, e in ogni lettura vuole fare la sua parte, recitando una sua poesia sulla droga, con rime baciate e morale prevedibile. Ma è felice così, un uomo con una sola poesia scritta e imparata a memoria.
Quel giorno pranziamo in un ristorante con vista sul Danubio, un fiume enorme, con lunghe file di alberi lungo le sue rive, sottili e lunghe imbarcazioni che lo percorrono verso nord, pesci che saltano e la corrente che scorre lenta parlando tutte le lingue d’Europa.
Il giorno dopo ci riuniamo in un bar a Zemun, un quartiere ai limiti di Belgrado sul fiume, il bar in cui passava la maggior parte del tempo Rasa Livada, un poeta morto l’anno scorso, molto conosciuto ed amato di cui però è difficile trovare traduzioni.
Andando via da lì, in cima ad un palazzone di cemento vedo una scritta che recita "Oltre la morte". Mi dicono che non sanno cosa voglia dire, ma che si può trovare su molti palazzi. L’ultima conferenza stampa, quella del sabato, è stata disertata dai giornalisti, e nel vuoto dell’attesa passano all’improvviso, come quattro fulmini pesanti e assordanti, tre caccia militari a bassissima quota, uno ogni cinque minuti, lame infuocate che spaccavano il cielo, mentre intorno a noi i ragazzi serbi cercavano di sorridere imbarazzati nascondendo orribili sensazioni.
L’ultimo giorno, sabato, arrivano le premiazioni della giuria del festival: vincono James Byrne (un poeta inglese, direttore della rivista "The Wolf"), Alexandra Petrova (poetessa russa che vive a Roma) e Faruk Sehic (poeta bosniaco).
La notte prima della partenza la passo in ostello a bere con Boris, mentre guardiamo gli sketch dei Monty Python: le casse del pc sono rotte, così, mentre le due ragazze che ci accompagnavano dormivano stanche e ubriache su un divano, noi facevamo il doppiaggio improvvisando in inglese. Entusiasmo balcanico e mediterraneo, non c’è che dire!
VALERIO CRUCIANI
Entusiasmo balcánico.
crónica sobre el festival de poesía de Belgrado Trgni Se 2
de Valerio Cruciani
Festival de poesía trgni Se 2
del 7 al 13 de setiembre 2008
Es el 6 de setiembre. No hay vuelos directos de Madrid a Belgrado, así que debo hacer una escala de un par de días en Roma. Desordenada, sucia, caótica, basta dar un par de vueltas para encontrarse por todos lados con grupos de jóvenes que se intercambian historias sobre sus vacaciones en España. Por otra parte, en Madrid en pleno agosto, era suficiente dar dos pasos, para sentirse rodeado de italianos.
En el aeropuerto de Fiumiccino hay dos palomas que pasean en el restaurante de la primera planta, una cucaracha aplastada junto a los mostradores del check in de Alitalia con sus pequeñas maletas igualmente destrozadas. Persona non grata evidentemente. Un político o un hombre de negocios de algún banco en quiebra.
Estoy yendo a Belgrado, invitado por el festival de poesía Trgni Se, segunda edición, organizado por la redacción de la revista literaria "Treci Trg" (ver entrevista en Amnesia Vivace nº 21). Es la primera vez que tengo la posibilidad de pasar al otro lado de la cortina de hierro, ver la otra Europa, los Balcanes, Serbia, la ex Yugoslavia.
Apenas llegado, Boris y Sonja nos llevan a Kristin - la huésped noruega - y a mí, a buscar la imprenta donde recoger las invitaciones del festival. Entre patatas fritas, cigarrillos y zumos de fruta, en medio de un trafico infernal, que apesta a gasolina super, palacetes grises, trams verdes, gitanos que hacen auto stop a todo lo largo de carreteras de camino sucias rodeadas de caseríos bajos, mal terminados, jardines abandonados, enormes carteles publicitarios, calles desconocidas y a veces hasta inventadas, mujeres que recogen cartones en carretillas, con el fondo de inmensos bloques de cemento tapados por la ropa tendida fuera y antenas parabólicas, viejos autos jamas vistos en occidente junto otros nuevisimos que en cambio conocemos perfectamente. En medio de todo esto no encontramos la imprenta así que lo dejamos y nos dirigimos hacia la casa de la poesía (Stari Grad Kulturni Centar) para participar en la inauguración del festival. Soy inmediatamente introducido en las tradiciones locales, Boris me obliga a beber con el estomago vacío un vaso de slibovica (se pronuncia sliboviza). La atmósfera es cordial y acogedora desde el primer momento, dejando de lado el calor infernal y la humedad insoportable. Las paredes grises, los edificios ennegrecidos y descascarados, los electrodomésticos viejos y los patios descoloridos rodeando casas modestas, humildes.
Cenamos en el Café Biliblioteka, punto impecable de la organización: un café en pleno centro, cercano al hostal, en el cual nos reunimos para desayunar, almorzar y cenar. Al segundo día tengo la oportunidad de hacer una primera salida solo, voy hacia la calle principal, un área peatonal turística, con las grandes firmas, antiguos edificios recuperados, impecables, terrazas y quioscos que venden postales y pins, “Yugoslavia for ever”, algo sobre Milosevic, algo contra Europa, grupos musicales, etc. La historia y la política convertidas en folklore de souvenir. Los jóvenes son diferentes, les gusta nuestra ropa, y las muchachas principalmente están perdiendo todo el recato. Estas cosas nunca son graduales: Boris me ha dicho que hay una zona en el centro re-nombrada "Silicon Valley”. No por la tecnología sino por la cantidad de mujeres que se remodelan las tetas! Y de hecho...
En el mercadillo algunos puestos que venden recuerdos militares y objetos diversos muestran un cartel que dice algo así como “no vendemos a los europeos” o quizás “no vendemos cosas europeas”. Al final de la calle más puestos que venden artesanías mientras ancianas señoras sentadas en el suelo venden sus enormes ganchillos en tanto van tejiendo otros delante de los paseantes. Cruzando el semáforo, un parque que rodea el Kalemegdan, una antigua fortaleza de origen turco o inclusive romana. Los arboles devorados por el descuido con sus hojas secas por el suelo son el signo tangible de estos últimos años de abandono, no obstante, las mujeres y hombres que pasean o conversan sentados en los bancos, con sus ropas modestas, y un grupo de estudiantes con la profesora sentados, discutiendo algo respecto al libro, en fin todo eso te hace sentir que la vida ha vuelto a transcurrir.
Esa misma tarde vamos al Pen Center para la conferencia de prensa de la inauguración, hay periodistas de radio y TV locales y nacionales, nos entrevistan, escuchan con gran interés, preguntan con recelo sobre el vinculo entre la poesía y la política, quieren saber nuestro punto de vista sobre Belgrado (cosa que parece ser para ellos de vital importancia). Cada uno de nosotros participantes (otro punto a favor de la organización) va acompañado por una traductora e interprete de manera que durante las entrevistas y las lecturas nadie deba verse obligado a treparse a los espejos del inglés. Luego de la entrevista, damos con Kristin un paseo a lo largo de la vía Aleksandra, donde están las facultades y las bibliotecas, negocios, semáforos, cláxones, trafico, humo, un hombre que copia llaves en su automovil-oficina, autobuses repletos donados por los japoneses, chicas exageradamente provocativas, gente que no acaba nunca de desbordar la calle, martillos hidráulicos, construcciones en marcha, la gran casa del presidente y el palacio de correos, austero y dominante, calor infernal, un coche sobre la acera hace las veces de escaparate para un vendedor de ropa de niños, los colores de los escaparates de moda no son siempre vistosos, las aceras son una mezcla de hamburger, kebab y hornos de comida para llevar, literalmente un mostrador callejero, una caja y clientes amontonados.
Luego de una lectura en la casa de la poesía vamos a un local español llamado casa García. Esta relativamente cercano al río, de noche esas callejuelas y escaleras parecen los espectros de viejos establecimientos balnearios abandonados, estructuras de hierro oxidadas, columnas llenas de manifiestos, subterráneos con tubos de neón que cuelgan torcidos sobre las cabezas de los pasantes. En casa García conozco a Jairo, un chaval de Galicia que vive en Belgrado trabajando como traductor e interprete. Se declara nacionalista gallego, cree en una España hecha de pequeñas naciones independientes, con su lengua oficial y su administración local, no apoya el terrorismo y sostiene que se equivoca quien se define a sí mismo, a la propia identidad, a partir del desprecio por el otro. Hablando de Galicia, dice que allí uno de los valores inamovibles es evitar que alguien pase hambre. Y me cuenta la historia de una vieja señora que encuentra a dos rumanos robando en su gallinero, y en vez de dispararles los invita a comer en casa. Cuando la policía se los lleva a la comisaria ella los visita llevándoles de comer. De hecho si entráis en cualquier restaurante gallego os daréis cuenta que para ellos es inconcebible escatimar con las raciones.
Habla mucho también sobre la situación política de la ex Yugoslavia, sosteniendo que el odio y el nacionalismo han sido impuestos desde ciertos sistemas de poder, sobre todo durante y a posteriori de las guerras de los 90 y que en la mayor parte de los casos la gente continua respetándose, tan compacto es el entramado de interrelaciones entre un pueblo y otro, entre una etnia y la otra.
Luego de un par de slibovica nos vamos. Al día siguiente tengo la mañana libre y aprovecho para volver a pasear por Belgrado y ver el río. Hay dos ríos que rodean la ciudad: el principal, el más grande es el Danubio, el otro, su afluente, el Sava. Los ríos están atravesados por largos puentes de hierro y cemento, a lo largo de las calles que recorro para llegar al Sava veo viejas casa de ladrillos sucios junto a acrisolados palacios vacíos, una iglesia ortodoxa, mi primera iglesia ortodoxa, con su gran espacio libre, la imagen del santo en el centro, la enorme araña que pende del techo, un par de personas que rezan de pie. Desciendo por callejuelas, los gitanos transportan cartones o hierros en carritos movidos a pedal o con pequeños y antiguos tractores que arrastran abollados remolques amarillos, llego al puerto de Belgrado, un ancho muelle con barcas amarradas, el río parece una camisa con doble hilera de botones, hay una estación ferroviaria con los andenes tapados por la hierba, un paso a nivel controlado por dos hombres que juegan a las cartas, una señora mayor medio dormida en la parada del bus que vende ganchillos.
Por casualidad consigo encontrar una pequeña barca que presta servicio a lo largo del río. La experiencia del día, la barquilla que soñaba tomar, un grupo de chavales que daban un curso de náutica, atraídos y curiosos por la presencia de un extranjero occidental, italiano. Me rodean me hacen preguntas, sonríen abiertamente, quieren saber como se dice “fica” (coño), hablan de fútbol, sus equipos favoritos son la juve y el inter, yo en cambio no entiendo nada de fútbol: solo en estos casos me arrepiento de no haber nunca aprendido nada que tuviese que ver con ese deporte. También ellos me preguntan que pienso de Belgrado, no han viajado nunca, son aquellos que al igual que sus padres y sus hermanos mayores, un día irán a hacer largas filas en la puerta de los consulados para obtener un visado y hacer finalmente un viaje, visitar cualquier otra ciudad. Uno de ellos viste una camiseta con la cara de Mladic, el criminal todavía buscado después del arresto de Karadzic, y me hacen oír una consigna nacionalista (todo esto después de una breve discusión sobre Kossovo): “fuck cola anda pizza, we just want slibovica!”
En tanto sobre nuestras cabezas pasan puentes de hierro rojo con hombres enganchados que trabajan con enormes y rumorosas bombas de pintura para rejuvenecerlos un poco, alguno se baña en el río, la ciudad se aleja y nosotros nos adentramos en la parte boscosa del río. A lo largo de la orilla filas interminables de casas boyantes.
Por la tarde, reencuentro la misma paz en un patio del rectorado, un gran espacio cuadrado lleno de arboles altos, tilos o plátanos, en pleno centro pero completamente aislados del caos. Me ha llevado hasta ahí Serdan, un viejo amigo escritor de los tiempos de la bienal de Atenas. Me explica que los nacionalistas son una restringida minoría de serbios que no saben como superar el trauma de la guerra persa, de los bombardeos de la fuerza extranjera, de la OTAN, buscan un sentido, un desahogo, y luego mientras me esfuerzo en acabar una cerveza, me ofrece otra, agregando: “recuerda que has venido aquí por tu propio pie!”. Conseguido apenas acabar la segunda intento dejar un resto, pero Serdan sonriendo con el cigarro encendido, me dice: “No dejes nunca el mal en casa!”
Al día siguiente la experiencia apuntada en rojo no es la larga entrevista de la radio studio B, en el piso 22 del palata beograd. Al día siguiente la experiencia sangrante ha sido pasar con un autobús por una calle céntrica y descubrir desde la ventanilla, con el calor y entre las cabezas y las espaldas de la gente que lo llenaba, que hay todavía dos grandes edificios destruidos por las bombas. Se abre en un momento una cicatriz fulminante. Volveré ahí solo, un par de días después, para hacer las fotografías y para convencerme que de verdad lo he visto.
Luego de la entrevista he tenido la ocasión de dar un largo paseo con Ivana, la traductora, apasionada por Italia, que me lleva a conocer la enorme iglesia de San Saba, la iglesia ortodoxa más grande de Europa y tal vez del mundo. Dentro hay todavía una gran cava de cemento gris alto en cuyos bordes se pueden pero apreciar las decoraciones blancas ya colocadas. En una atmósfera suspendida e irreal, un grupo de una treintena de militares reza muy juntos en torno al icono central mientras el sacerdote entona un canto litúrgico. Cuando salimos, noto que Ivana sale caminando hacia atrás: me explica que por tradición los ortodoxos abandonan la iglesia haciéndose el signo de la cruz mientras continúan volviendo la mirada sobre la imagen del santo y el crucifijo. Luego debe correr a casa porque con su compañera de piso están esperando al electricista. Son muchos en este pobre país mediterráneo, los jóvenes que viven por cuenta propia.
Cuando vuelvo a fotografiar el edificio bombardeado una guardia sale y en ingles me dice que esta prohibido hacer fotos. Me lo dice con gentileza, sin insistencia. Aquí las leyes como me ha dicho Boris el primer día, son cosas relativas, que se respetan pero que se aplican con una cierta flexibilidad, vuelvo a pensar en lo dicho por Serdan, en la parte intacta del mismo edificio una palacio gubernamental de la época de Milosevic, la propia OTAN ha instalado sus oficinas. Una siniestra y planificada ironía. La vida que transcurre normal ahí, entre esas calles la gente que se mueve en el trafico obsesionando a este extranjero que mira amargado aquella imagen... Saco nuevamente la cámara fotográfica y continuo a disparar con el corazón roto y el aliento quebrado.
Me voy en dirección al hostal, y aprovecho para caminar en medio de la verdadera Belgrado, lejana de los circuitos turísticos, calles estrechas y en subida, tristes y polvorientos negocios de tejidos, zapatos de los años 50, bocatas, kebab, hornos, pequeñas plazuelas abandonadas con autos de vidrios rotos, parabólicas oxidadas en los balcones, palacios ahumados y descascarados, los jóvenes con que me cruzo llevan encima los colores que ha perdido la ciudad.
Cuando desemboco de nuevo en la calle principal finalmente me doy cuenta de cuales son los dos detalles que hacen la diferencia entre Belgrado y las ciudades a las que estoy habituado, no hay mendigos por la calle, y la cosa me sorprende, dado la alta tasa de pobreza, segundo no hay bares con taburetes de barra para tomar algo rápido de pie y largarse, y entre todos los bares que hay son pocos aquellos que aun tienen café turco, porque es el que menos gusta a los extranjeros.
Al día siguiente experimento el calor del pueblo. Los organizadores alquilaron un minibus y nos llevaron en tour por las afueras de Belgrado, entre Indjia, Sremski Kartovci y Novi Sad, en una llanisima y verde provincia llamada Voivodina. En cada ciudad leemos en escuelas y centros culturales, en Indjia un teatro lleno de estudiantes de secundaria, llueven aplausos y participaciones, los chicos escuchan interesados, algunos bostezan otros ríen, y después una vez acabado saltan sobre el palco con sus cuadernos abiertos para pedirnos autógrafos. Algunos sabían alguna palabra en italiano y eran felices de demostrarlo. Esta que sigue es la poesía que he leído en mas ocasiones durante el festival:
desde la pequeña radio en la ventana de la escuela
llegaban las guerras
rompía Yugoslavia
sus huevos de cocodrilo
tumbado en los campos de mi país
veía como los caza sobrevolaban nuestros cielos
la guerra del vecino la llamaban
donde otros se quedaron para siempre entre las flores de fuego
estaban los buenos y los malos
los muertos y los palacios destruidos y los franco tiradores
yo estaba tendido sobre aquellos prados
y otros delante de la ventana de la escuela
el campanario temblaba
y los caza estallaban mas allá de la barrera del sonido
ahora en un vuelo comercial
la casualidad me lleva mas allá de aquel trozo de Adriático
a ver donde he descargado mis bombas
como he abierto aquellos huevos
ahora que la escuela está cerrada
y ahora que no me tumbo mas entre los campos
a mirar el cielo azul y las formas de las nubes
a veces recojo aquellas flores o toco las campanas a muerto
sin oír ya mas aquellos truenos que destrozaban el techo del infierno
El suceso de nuestro tour es tal, que un hombre de unos 60 años, alto, grande, con un traje azul y un sombrero negro, ligera barba blanca y ojos azules que miran como los de un loco o un demonio iluminado, sube a nuestro minibus y nos acompaña en todas las etapas, en todas las lecturas quiere participar, recitando una poesía sobre la droga, con rimas dulzonas y moral previsible. Pero es feliz así, un hombre con una sola poesía escrita aprendida de memoria.
Aquel día almorzamos en un restaurante con vistas al Danubio, un río enorme, con largas hileras de arboles bordeando sus orillas, ligeras y largas embarcaciones que navegan hacia el norte, peces que saltan y la corriente que circula lenta hablando todas las lenguas de Europa.
Al día siguiente nos reunimos en un bar en Zemun, un barrio en la periferia de Belgrado sobre el río, el bar en el que pasaba la mayor parte del tiempo Rasa Livada, un poeta muerto el año anterior, muy conocido y amado pero de quien es difícil encontrar traducciones.
Yéndonos de ahí, encima de una palacete de cemento veo una pintada que recita “mas allá de la muerte”, me dicen que no saben que quiere decir, pero que se puede encontrar sobre muchos edificios. La ultima conferencia de prensa, la del sábado, ha sido disertada por los periodistas, y en el vacío de la espera pasan imprevistamente, como cuatro fulmines pesados y ensordecedores, tres cazas militares a bajísima altura, uno cada cinco minutos, lenguas de fuego que rompían el cielo, mientras a nuestro alrededor los chicos serbios intentaban sonreír incómodos ocultando pavorosas sensaciones.
El ultimo día, sábado, llegan los premios del jurado del festival: ganan James Byrne (un poeta inglés, director de la revista “The wolf”), Alexandra Petrova (poeta rusa radicada en Roma) y Faruk Sehic (poeta bosnio).
La noche de la partida la paso en el hostal bebiendo con Boris, mientras miramos el sketch de los Monty Python: las carcasas del PC están rotas, así, mientras las dos jóvenes que nos acompañaban dormían cansadas y ebrias sobre un diván, nosotros hacíamos el doblaje improvisando en inglés. Entusiasmos balcánico y mediterráneo, ¡no hay mas que decir!
Traduz. Martha Bello
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De Valerio Cruciani (1977), escritor, poeta y escenógrafo, han publicado en sedes diversas cuentos y poesías. Ha sido seleccionado como participante de la 11 bienal de los jóvenes artistas de Europa y el Mediterráneo, en el festival literario internacional Klandestini di Malta, del cual ha sido inclusive organizador, en el festival de Europa de Londres.
Ha fundado el colectivo St. Louis an Lawrence books con el cual ha publicado la recopilación de poemas “Las ciudades tiene los ojos siempre abiertos” y el cuento “Millennio”. Ha trabajado en la realización de documentales, muestras fotográficas y lecturas en gira por Italia. Es uno de los fundadores y redactores de la revista independiente www.amnesiavivace.it
Actualmente esta trabajando en su primera novela y en una serie de otros diversos proyectos. Vive en Madrid.
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Carta de Martha Bello a Valerio Cruciani:
Valerio,
esta es la versión definitiva que he enviado a i poeti.
Es muy fuerte esto que dices que a fiumicino no hay metáforas.
Quiero decirte que ha sido un honor traducir tu crónica, y también muy conmocional personalmente para mi.
Yo había estado en yugoslavia en 1977, (aun vivia tito) y atravesé el país desde el norte de italia hasta el limite con Grecia,
y aunque son ya tantísimos años, los flashes de mi memoria (junto a algunas malísimas fotografías de la época) son de una ciudad pueblerina, donde la gente colgaba en los baldones unas ristras larguísimas de ajies alargados (parecidos a los que aquí en España llaman pimiento italiano) a secar,
no habia ningún cartel indicador de calles que estuviese escrito en caracteres occidentales, nos volvimos locos buscando el correo que teníamos delante de nuestros ojos,
el domingo en algún pueblo de periferia vimos subir a las mujeres a la iglesia con delantales blancos bordados como atuendo regional, y
en un hotel en medio de un bosque en el que pernoctamos, camareras vestidas a la usanza nos traian un desayuno sencillo de cafe pan caliente y mantequilla.
Fue en ese maravilloso bosque donde pasamos una par de horas de la tarde escuchando en la radio del auto una bellísima sinfonía rodeados de un entorno espectacular y pacífico (yo venia de una argentina en plena dictadura militar, de paranoia a tope)
al sur del país, otro país, los hombres llevaban un calzado con las puntas dadas vueltas, gorros tipo rusos de piel, y tomábamos exquisito café turco en vasijas de cobre, y rompian platos al estilo griego en los sitios en que íbamos a cenar o beber una copa.
En belgrado un inmenso y tradicional mercado de frutos nos dejó encantandos por su orientalidad.
A pesar de haber vivido a través de la televisión y los periódicos aquella horrible guerra, tu crónica post guerra me devuelve a estas fugaces imágenes con la pena infinita de lo que ya no es, pero no por la transformación que el tiempo hace del mundo, sino por pura y estrictamente violación humana.
Finalmente creo en lo dicho por jairo, no había ahí entonces ningún sentimiento de animadversión entre las diferencias y si recuerdo que su gasolina era nacional.
Un saludo y gracias por permitirme versionar tu texto,
Martha