paolo ruffilli - eneabiumi

L’amicizia letteraria che mi lega a Ruffilli mi permette di uscire dalle righe evitando i giudizi di una critica paludata, ingessata e freddamente accademica.

E dirò subito che il cammino scelto dal poeta è ardimentoso e spietato.

Ardimentoso perché le situazioni che mette in gioco – e che esistono al di fuori di una certa qual normalità del vivere comune – appaiono già di per sé critiche e per nulla scontate. Avremmo infatti potuto leggere un mellifluo pietismo per dei poveri cristi incarcerati o drogati. Ma fortunatamente, nulla di tutto questo. Ciò che vi si legge è il grido dell’uomo, spesso o quasi sempre, solo nei sui errori. E nel suo dramma.

Spietato perché alla fine l’urlo che ne emerge appartiene a tutti. Anche ai presunti innocenti.

L’urlo trafigge la vita, il tempo. Sconvolge il silenzio. L’urlo piega gli amori, i ricordi. Abbatte i muri.

Ecco, appunto: i muri. Che sono quelli del carcere. Ma sono anche quelli dell’anima. E allora non ci resta che affidarci ad altre mura, ad altre stanze. Mura fatte di nuvole, di percorsi, di speranze. Stanze le cui finestre danno sul cielo.

E non c’è chi non veda come, questa volta, l’ossimoro apra le proprie ali sul binomio libertà-carcere, realtà-fantasia, parola-silenzio. E non solo.

C’è il dramma, come dicevo, dell’uomo solo con se stesso. Piegato – e piagato - da un’esistenza sbagliata. La vita sentita come un’ingiusta condanna. Una sentenza quasi a priori. Precostituita.

Ma la realtà è questa situazione di sbarre, di mura invalicabili, di tempo senza clessidra. E la fantasia è fatta di memoria, di rimpianto, di sogni perduti.

Da qui sgorga la parola. Il dialogo con se stesso o con un altro da sé che non conosci. Che immagini. Che ti inventi. Come ti immagini amori veri o presunti. Come ti immagini il fiorire di alberi. Come ti immagini la vita al di fuori. Per te e per gli altri. Ma soprattutto per te.

Vorresti ma non puoi.

Cerchi una spiegazione e a mala pena la trovi. E forse è sbagliata come la tua esistenza. O fasulla come la tua fantasia. Una fata morgana qualsiasi che ti supporta. E l’abbattersi del silenzio. Triste come la notte. Ambiguo come il tramonto.

“Le stanze del cielo” mi ha portato a queste riflessioni. Volutamente non ho citato un solo verso. Volutamente non ho parlato di musicalità o di settenari o di cantabilità. Perché Ruffilli ha più volte precisato che non fa differenza tra poesia e prosa. E chi ha seguito la sua raccolta di racconti “Preparativi per la partenza” gliene può dar atto. La sua scrittura – attenzione parlo di scrittura appositamente - ha questo di piacevole: la gradevolezza della parola che ti affascina, che ti trascina, che ti ammalia.

In questo vortice di parola sono stato preso. Da questo vortice esco con qualcosa in più. Come se la metafora, ora, fosse diventata mia. Non è un caso se all’inizio della raccolta sono incise queste parole di Mori i Po: i poeti, al contrario di tutti gli altri, sono fedeli agli uomini nella disgrazia e non si occupano più di loro quando tutto gli va bene.