Maria Luz LOLOY MARQUINA - eneabiumi

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Maria Luz LOLOY MARQUINA

TRADUZIONI

JOSE’ MARTI’
(da “Versi sinceri”)

V
Se vedi un monte di spume,
è il verso mio che vedi:
il verso mio è un monte ed è
un ventaglio di piume.
Il verso mio è un pugnale
dal cui pugno sboccia un fiore:
il verso mio è uno zampillo
che offre acqua di corallo.
Il verso mio è un verde chiaro
ed un roseto carminio:
il verso mio è un cervo ferito
che ai monti chiede rifugio.
Il verso mio al forte fa piacere:
il verso mio breve e sincero
ha la forza dell’acciaio
che  fonde la spada.
VII
Per Aragòn, in Ispagna,
ho io nel mio cuore
un posto tutto Aragòn
franco, fiero, fedele, senza astio.
Se vuole uno sciocco sapere
perché lo tengo, glielo dico
che lì ebbi un buon amico
che lì volli una donna.
Là, nella pianura fiorita,
quella dell’eroica difesa,
per mantenere ciò che pensa
gioca la gente con la vita.
E se un alcalde (1) la opprime
la molesta un re musone,
si mette una coperta il contadino
e muore con il suo fucile.
Amo la giallastra terra
che bagna l’Ebro fangoso:
amo il Pilar azzurrino
di Lanuza e di Padilla.
Stimo chi con un golpe
butta per terra un tiranno,
lo stimo se è un cubano,
lo stimo se aragonese.
Amo gli umbratili cortili
con scalinate trapunte,
amo le navi silenti
e i vuoti conventi.
Amo la terra fiorita,
musulmana o spagnola,
donde ruppe la sua corolla
il breve fiore della mia vita.

(1) sindaco

CESAR VALLEJO

“... mi sto chiarendo molte idee e molti sentimenti delle cose e degli uomini americani. Mi sembra che ci sia la necessità di una gran collera e di un terribile impulso distruttore di tutto ciò che esiste in questi luoghi. E’ necessario distruggere e autodistruggersi. Ciò non può continuare; non deve continuare. Poiché non ci sono dirigenti sui quali poter contare, è necessario, di conseguenza, unirsi in un folto gruppo di persone ferite ed indignate, e spaccare facendo a pezzetti tutto quanto ci rode e sta alla nostra portata. E sopra tutto è necessario la nostra autodistruzione e poi quella degli altri. Senza il previo sacrificio di uno stesso, non c’è salvezza possibile.”

IN PIEDI PRESSO UN SASSO
In piedi presso un sasso,
disoccupato,
abietto, raccapricciante,
ai bordi del Sena va e viene.
Dal fiume sgorga allora la coscienza,
con picciolo e graffi di un albero avido;
dal fiume sale e scende la città,
fatta d’abbracciati lupi.
Chi è lì la vede che va e che viene,
monumentale, porta i suoi digiuni
nella testa concava,
nel petto i suoi pidocchi purissimi,
e sotto
il suo piccolo suono, quello della sua pancia,
silenzioso tra due grandi decisioni,
e sotto,
più sotto
un foglietto, un chiodo, un cerino...
Questo è, lavoratori, colui
che nel lavoro emanava sudori,
che suda dentro la sua secrezione
di sangue rifiutato!
Fonditore del cannone, che sa quanti
artigli
sono d’acciaio,
tessitore che conosce i giusti fili
delle sue vene,
muratore di piramidi,
costruttore di colonne dai sereni
pendii, con trionfali insuccessi,
se ne va nella folla
immobile individuo fra trenta milioni
di immobili,
che forza il ritratto sul suo tallone
e che fumo quello della sua bocca digiuna, e come
la sua figura incide, canto a canto,
nella sua corazza atroce, immobile
e che idea di dolorosa valvola nel suo
zigomo!
Così fermo il ferro davanti al forno
ferme le sementi con le loro docili
sintesi nell’aria,
ferme le luci artificiali,
ferma nella sua autentica apostrofe la luce,
fermi nella crescita gli allori,
ferme le acque agitate ai piedi
e sulla terra stessa,
ferma per lo stupore davanti a quell’arresto.
Che forza il ritratto nei suoi tendini!
che trasmissione allacciano i suoi cento passi!
come stride il motore nel suo malleolo!
come bofonchia l’orologio, passando
impaziente
sulle sue spalle!
come ode deglutire i padroni
il grano che gli manca, compagni,
ed il pane che si riempie di saliva,
e, udendolo, sentendolo, al plurale,
umanamente,
come ferma il lampo
la sua forza senza testa nella sua testa!
e ciò che fanno, sotto, allora, ahi!
Più sotto, compagni,
il libretto, il chiodo, il cerino,
il piccolo suono, il padre pidocchio!

ALEX  PAUSIDES

Io,  Faust

Se in cambio della mia povera unica vita Mefistofele
m’accordasse un desiderio
prima di chiudere la sua bocca crudele
gli direi che voglio vederti
perché sono tuo dio mio e m’hai saziato la bocca
ed è stato dolce mordere il tuo nome odoroso in un fresco pasto
ma è meglio che non arrivi Mefistofele con la sua nebbia
         e la bugiarda sua luce
e nella sua magia tu ritorni assopita e negli occhi miei ti posi
bagnata nella fame del fuoco

Euridice
 
E al rotear degli occhi
era il fumo
specchi
niente

La casa dell'uomo
 
Luomo affolla di volti la sua casa,
varchi, nubi, magie e paesi.
La tenerezza  che gli manca
la può  incontrare in cucina nel povero cibo
se nelle sue mani sgorga limpida l'acqua
e cacciar via i minuti danni della polvere;
e ardui brandelli di fuoco aprono l'umile cerimonia,
la povera cena del padre generoso e della figlia, che uniti
nel sorriso si ascoltano mangiando.
Comunione più profonda del silenzio stesso
che li riavvolge ora, li illumina
con una luce assai tenue che li fa parlar sottovoce,
e la nostalgia non impone la sua sete.
Esseri colmi di mare e di arie squisite, creature
che unì l'amore più in là del tempo e le
pericolose leggiadre voci del desiderio.
In un istante l'uomo s’è garantito
le pelli, la polvere, le spezie, gli stupori che la luce
non può impugnare in questa sala ben più triste.
E non ci saranno naufragi né diluvi
né magiche rotte né  paesi distrutti
che non zittiscano il fragore in questa casa.
Casa che un uomo fonda fra le sabbie
nella terra ancor feconda del suo sogno
dove una bambina regna
come un'aria limpida che lo illumina tutto.

Abitante del vento
 
Ledita dell'autunno si giacciono nel mio letto
cadono muti i passeri lenti che il vento ha posseduto.
L'autunno è una docile donna un buon amico un'acqua che disseta
un po' d'aria che manca a certe ore.
L'autunno arriva zitto: che succede
all'autunno  grave e lamentoso nella mia mano?
Ma non lo contrasto, gli apro la porta
per farlo entrare,  divento goffo,
imparo canzoni alla moda,
compro un fiore ogni mattina,
celebro incredibili riti
con gli angeli che popolano i crepuscoli.
Ah! sono quasi ridicolo
aspettando nella penombra della porta chiusa
una donna impossibile.
Andiamo a vedere che succede all'autunno
perché mette le sue dita senza sangue nei miei domini.
Mentre cadono le foglie verdi riempitelo tutto
con il suo silenzioso rumore.
Mettetelo tutto sporco di bellezza ammalato
di foglie morte.
Benvenuti in casa: recitano versi malvagi.
Possono sedersi sulla mia testa sui gangheri della porta
sulle reti del mio letto sulla vecchia remington.
Bevono il loro rum dividono i miei biscotti le mie vesti.
Sono loro i padroni alla fine del mio spazio.
E' l'unico che ho:  glielo offro.
Viva l'autunno con le sue foglie vive  sulle mie spalle
fra i miei piedi fra i folletti che inciampano con me.
Mi lascino salire su di una foglia e viaggiare nel vento.
Voglio iniziare un viaggio verso la bellezza
delle cose più diafane e semplici.

Luis Rogelìo Nogueras

Orazione per il figlio che non nascerà mai

Eravamo tanto poveri, figlio mio,
tanto poveri,
che anche i topi ci compativano.
Ogni mattina tuo padre andava in città
per vedere se qualche signore lo impiegasse
- anche se fosse solo per pulire
le stalle
in cambio di un poco di riso -
Però i signori
passavan via senza udire lamenti
ne preghiere.
E tuo padre girava nella notte
pallido ed esile sotto le sue vesti sudice
che io mi mettevo a piangere
e chiedevo a Jizo,
dio delle donne incinte
e della fecondità,
che ti liberasse dalla fame
e dall'umiliazione.
E il buon dio mi ascoltò.
Così passarono anni senz'anima.
I miei seni si seccarono
e alla fine
tuo padre morì
ed io invecchiai.
Ora aspetto solo la fine
come il tramonto aspetta la notte
che le getterà negli occhi
il suo nero manto
Però almeno
grazie al buon dio Jizo
tu sei sfuggito dalla sferza dei signori
e da questa crudele esistenza da cani.
Niente e nessuno ti farà soffrire.
Le pene del mondo non ti raggiungeranno
mai,
come non raggiunge la segnata freccia
il lontano falcone.

Eternoretornografo
Sussurrò il giovane poeta
chiudendo il libro di Apollinaire:
"Questo sì che è un poeta ..."
E Apollinaire, il soldato polacco
Wilhelm Apollinaris de Kostrowitzky,
fino alla cintola sepolto nel fango
della trincea di Lyon,
contemplando la notte stellata
del 4 agosto del 1914,
arida terra, fiorita di pali e filo spinato,
in questa notte del 1914 seminata di mine,
osservando azzurri bengala,
e rossi e verdi in un cielo avvelenato di gas,
strinse al petto l'umido
piccolo libro di Rimbaud
mentre, sibilando, sulla sua testa
passavano siluri.
E Rimbaud, preparando le sue valigie
in Charlesville, mise accanto alla sua roba
i versi di Villon,
e Villon, il dodici volte condannato,
l'apocrifo, l'inedito, penso
dinanzi al patibolo a tré cose
che più amò: sua moglie Christin,
la sua leggenda, la sua di lui, quella di Villon,
e l'adombrato ricordo di simili versi
che raccontavano la notte del 711,
in cui Taric si impossessò di Gibilterra.
E il desolato arabopoeta che scrisse
quei versi nella calda notte del 711,
reggendosi alla scimitarra,
imitava i versi che nella lontana Argel
suo nonno gii leggeva;
e il nonno di Argel aveva letto
Imru-Ui-Qais, che Mahoma considerava
il primo grande arabopoeta:
lo aveva letto in una interminabile giornata
nel deserto del Sahara (più umido adesso
di allora) in una lenta marcia
di cammelli e infuocati tè.
Ed è probabile che Imru-Ui-Qais scrivesse
nella lingua di Allah imitazioni
di Orazio,
e Orazio ammirava Virgilio,
e Virgilio imparò da Omero,
e Omero, il cieco, ripeteva in esametri
strani poemi che amanti si sussurravano
all'orecchio nelle strette strade
di Susa e Babilonia,
e in Susa e Babilonia
i poeti imitavano i versi degli Hittiti
di Bog Haz Keui
e della capitale egizia Teli El Amarna,
e i poeti del 4000 a.c.
imitavano i poeti del 5000 a.c.
finché l'uomo di Pechino,
nell'umida caverna di Chou Tien,
mentre vedeva ardere lentamente sulla brace
l'anca di una preda,
grugnì i versi che dal futuro gli dettava
un giovane poeta
che sussurrava chiudendo un libro
di Apollinaire.

ROBERTO SANTORO

IL GRANDE KEPI’
 
al mio paese si sono persi
molti abitanti
e dicono che un corpo
dell’esercito
li tiene.
- io, signore?
- sì, signore!
- no, signore!
- ma allora
chi li tiene?
- la polizia
- io, signore?
- sì, signore!
- no, signore!
- ma allora
chi lo tiene?
- la camera del terrore!
- io, signore?
- sì, signore!
- no, signore!
- ma allora
chi li tiene?
- gli organismi
paramilitari
- io signore?
- sì, signore!
- no. Signore!
 
Ma allora
chi li tiene?
Ma allora
chi li tiene?
Ma allora
chi li tiene?
 

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