Giuria Tirinnanzi
Giudizio della Giuria del Premio Tirinnanzi di Legnano (Franco Buffoni - Presidente - Uberto Motta, Fabio Pusterla, Luigi Crespi - segretario)
Il titolo della raccolta poetica di Enea Biumi, Sfulcìtt (Inganni), può essere preso a manifesto di una precisa posizione, etica ed estetica, che l’autore dipana nei suoi testi: gli inganni di cui si parla in questo libro sono infatti i frutti di una disposizione al sogno e alla fantasia, sono gli effetti di una delicatezza interiore, di una trepidazione costante, per cui occorre, al soggetto, proteggersi dai mali e dalle cattiverie della storia. La pena del vivere non è taciuta, è anzi ammessa esplicitamente, e tuttavia essa viene arginata e forse anche sconfitta per effetto di un’energia proveniente dal cuore, che corregge o allontana la superficie cattiva del mondo con la carica positiva dei ricordi, dei desideri, dei pensieri talvolta persino strampalati, dei piaceri intimi e domestici. L’esistenza porta il peso delle fatiche che tutti conosciamo e scontiamo, e a questo, in fondo, si riduce per l’anima – come scrive Biumi - «ul pecà de vèss al mùnd rivàa» (il peccato di essere venuta al mondo). I giorni, le settimane, gli anni passano «in d’un bòff » (in un soffio), e se ne resta come sbalorditi, schiacciati, constatando, quotidianamente, il principio elementare di ogni filosofia: il mistero della morte che ci attende, comunque e sempre «impruvìsa» (improvvisa, cioè umanamente non prevedibile benché certa), e dalla quale, consapevoli o meno, tanto spesso ci illudiamo di poter scappare. Eppure, dal fondo del proprio esserci, Biumi percepisce la vibrazione, il sentimento di qualcosa di diverso, ulteriore, che impedisce al negativo di avere l’ultima parola. È la rivelazione, l’epifania che si impone di una bontà, nonostante tutto, quale può dedursi fermandosi ad osservare: «i nìvur sùra ’l Tisìn» (le nuvole sopra il Ticino), «la man d’una màma / ca la cùmpagna ’l tùus» (la mano di una madre / che accompagna il figlio). E così, tra i laghi di Monate e Comabbio, di Varese e Maggiore, nei cortili e nei chiostri dell’alta Lombardia, nel dialetto di queste poesie tornano a fare capolino non soltanto Pascoli (con le sue civette, i suoi panni di bucato, la sua nebbia e i suoi mesi di novembre, le sue culle, e la sua ossessione per la morte), ma persino Kant («il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me»). Come inganni, come capricci si leggono queste poesie, che l’autore appende intorno a sé, metaforicamente, perché in esse si rispecchino e raccolgano quegli istanti di gioia vera, che parlano al cuore e lo commuovono.