Alicia VILLOLDO-BOTANA - eneabiumi

Es maestra, periodista, crítica literaria, licenciada en Ciencias Sociales por las universidades de Buenos Aires y Complutense de Madrid, y Relaciones Públicas.

Sobre  todo, se siente poeta desde muy pequeña.

Todos estos oficios los ejerce y ejercerá con libertad y simpatía.

Vivió veintiocho años en Ibiza y Madrid, desde diciembre de 1977 en que otra dictadura le hizo cruzar el charco.

Tiene un hijo, Santiago Marcelo, de 35 años. Es anarquista, genio informático y comparte vida con Irene, su compa chachi.

Tuvo una abuela indígena, mocoví, por lo que le encanta ser cabecita negra.

Cuentos, canapés & entremeses (Editorial C.I.E.N. 2002) es una recopilación de textos escritos desde su adolescencia hasta 1998, publicada en Baires durante el “corralito”.

Tiene bastante obra inédita  e insiste en seguir escribiendo. Se siente española, especialmente castellana, por su lengua mater. Es argentina, a su pesar, aunque reconoce que su joven país original ha gestado notables en las artes y ciencias, menos en política.

Por ahora, desde enero de 2005, navega las procelosas aguas del mar dulce Río de la Plata. Ya se vera para dónde rumbea.

Está enamorada de la arboleda y zaguanes porteños.

Neptuno:

cuando me realizas

un sueño

no es lo que soñé despierto

el trabajo amoroso de los días

en un agosto de no tantas soledades

aunque solitarios crepúsculos

en el Parque del Retiro

apacible,

sin cambiar el banco

ni el verdor de sus follajes

dentro de mi el mar interior

de un otoño

amarillo

la cerveza cuanto más espesa

mejor.

la vida con pereza

la amistad como si

Creo en la

naturaleza rugiente

en bichos varios

en niños sin malicia

Hija del Sol

Hermana del Agua

Me nutro de ambos

Amor:

nuestro futuro

es el presente

será cuestión de años

o de salud mental

aprecio los días

aspiro sus segundos

llegarán las jornadas

frías

esperando la aurora de luz.

la muerte

cabalga

frente a mi

ventana

le solicito

que no precipite su abrazo

sobre mi juventud:

tuya seré una eternidad

me siento bien

no preciso prolongar

el verso

soy una poeta

sin pena ni perdón.

así espero

en profunda herida

por la mirada de otro,

con la ilusión de no ser vista

el temor de parecer a sus ojos

una vulgar cosa

que no interesa

el silencio de los dioses

inunda

la mañana

fuerte como la roca.

Le encenderé una vela

mientras vuela la hoja

en su caída.

el otoño aquieta mis manos

otra hoja

roza la página

del libro que leo

"la paz del atardecer"

se desvanece sin prisa

entre fulgores

rojos de un sol que se marcha

de paseo

de ninguna sevicia

prosperó buen amor

sagrado amor

Verano:

regresa pronto

tu luz

"de mis soledades vengo

a mis soledades voy..."

las palabras

están cansadas

de los hombres.

me quedo

en el mágico paraíso

del silencio.

No me abandones

II

Invité en Marruecos

a cenar a un hombre

no quiso mirarme a los ojos

pero comió en paz

en aquel mi pequeño patio

los naranjos susurraban

secretos

a los pájaros

enamorada de mis árboles

ignoro sus nombres

su compañía es dulce

no dirigen el mundo.

libre como la sombra

no puedo retenerte.

mi lujuria se resigna

a nutrirse del recuerdo.

III

Gozne de gaviotas

atardecer sobre el Bósforo

detrás el Mármara.

viajo acumulando

mares  océanos,

ríos  lagos

en mis pupilas

robo como Prometeo

el fuego divino

para los hombres

Se han desatado

fieros vientos

esperando lluvia

para apaciguarme

lanzo mensajes

como botellas al mar

de algún punto cardinal

llegan

murmullos entre los pétalos

que abandonan la flor.

Alicia Villoldo-Botana

Buenos Aires,  21-IX-2011

Día del Estudiante, previa de la Primavera

   

Caminaba ayer hoy mismo

con la siria y la judía

La peruana y el bolita

Tierra pampa lluvia

Legua y habla

Española tana

criolla china

Mi patria

Engrandece la mirada

Cobijo

Entraña

Va dejando paso

Todos llegan a su río

Manso olor

Sufrido

Tan grande patria

Tan pago chico.

(c) Alicia Villoldo-Botana

del Cuaderno Mi Patria/Mi Mundo (inédito)

Rodeada de cuatro mares

las mezquitas silenciosas

llaman a la oración

con el monocorde canto del muecín.

Hace frío y las olas

salpican el cemento de los muelles.

Cruzando el Bósforo

atravesado el Mármara

a lo lejos una puede

imaginar el mar Negro

subida al pico de una montaña.

Desde las dos riberas

las mansiones de los ricos

saludan solitarias

con sus jardines adormecidos.

Invierno en Istanbul

mañanas de luminosidad grisácea

tardes en que la noche acecha

siempre esperando solícito

y acogedor

el tranway que me lleva al hotel.

Seduta sulla terrazza della sua cabina, Alicia guarda il Nilo.

L’enorme battello avanza con pigrizia sulle acque marroni e lei risplende come il sole, incarnazione di quel dio Ra che navigava per  l’universo ondeggiando su di una imbarcazione.

Per gli antichi egizi tutta la loro esistenza ruotava attorno all’acqua e tra gli stretti confini delle palme e delle piante acquatiche.

Osserva contadini e venditori, montati sulle groppe degli asini e i nubiani maestosi, ritti sulle dune donde il sole si mostra per la curiosità del turista. E’ salita fino alla punta più alta per avvicinarsi al tramonto.

Scalza è scesa dalla feluca che la porta alla spiaggia, immergendo i suoi piedi nella sabbia, senza badare allo sterco dei cammelli. Ha galoppato su uno di quelli, libera e timorosa.

L’escursione include la visita ad una popolazione nubiana nei cui cortili, adornati con pitture rupestri, le donne ripongono filigrane di gena nelle mani dei turisti.

Invitano a bere the verde e ricevono la mancia dei viaggiatori che penetrano nelle loro case per fotografare il pittoresco in cui abitano.

Ci sono pochi passeggeri sul battello. Intavola discorsi con due coppie di sposi, una madrilena e l’altra catalana, e con loro si perde nei templi, ipogei, tombe e mercatini sotto la luce di un deserto lontano dalla sua cultura e per l’affascinazione che sente finché lo conoscerà tra i confini di Tunes e Libia.

Il Nilo segue il suo corso.

Nelle escursioni, mentre i nativi fanno rullare i tamburi, lei siede tra loro o danza senza nessun pudore.

Il capitano annuncia che ci sarà festa in maschera.

Scende a fornirsi di vesti durante la visita al tempio di Amon, a Karnak, nella regione di Tebe nell’alto Egitto. Si maschera di odalisca. E’ la prima volta che si inventa una maschera ed è felice come una bimba.

Balla fino all’alba. Sta quasi per avere un’avventura con una delle guide, ma si ferma perché lui non vuole usare il preservativo.  L’amante frustrato passa dalla coperta sull’esterno e picchia tre volte alla finestra, ma non gli apre.

A mezzanotte o qualche minuto prima dell’alba sale in coperta, avvolta in uno scialle sopra la galabia bianca, e contempla il sacro fiume che, secondo la mitologia, incrocia il regno dei morti. Un regno dove questi andavano, dopo aver percorso un cammino zeppo di pericoli per essere giudicati da Osiride, il monarca affabile che sottrasse il suo popolo dal cannibalismo, gli insegnò le tecniche dell’agricoltura e dell’irrigazione e gli diede leggi per condursi in pace.

- Se mi permettessero di scegliere la specie in cui nascere, sarei un piccolo e veloce uccello; sorvolerei mari, attraverserei continenti, conoscerei cieli e riposerei sopra le nubi per contemplare il mondo. Mi trasmetti aneliti di divinità, di trascendenza mitologica, confessa al fiume.

Ha grande esperienza nel parlar da sola, nel rivolgersi alle forze della natura stabilendo fantasiosi e fertili dialoghi. L’immutabilità degli elementi non l’ha mai impaurita.

La guida le racconta di leggende mitologiche.

Osiride era odiato da Seth, suo fratello minore, che gli preparò una trappola mortale invitandolo a un banchetto, durante il quale avrebbe presentato un magnifico sarcofago da regalare all’invitato la cui statura avrebbe coinciso con le sue dimensioni. Lo provarono tutti. Ma il feretro era fatto su misura di Osiride così  che quando toccò il suo turno Seth serrò il coperchio e lo scagliò nel Nilo. Iside, sposa di Osiride, decise di prendere il suo cadavere per dargli sepoltura. Informato, Seth tagliò il corpo di suo fratello in quattordici pezzi che tornò a gettare nelle acque. Iside riuscì a recuperare i resti mortali meno uno: il suo fallo, divorato da lepidotteri, pagri e ossirinchi, i pesci che a partire da allora si sarebbero convertiti in esseri maledetti che nessun egiziano avrebbe potuto toccare né mangiare.  Iside ricostruì il corpo, lo imbalsamò e trasformatasi in falco lo sorvolò dandogli la virilità necessaria per concepire Horus. Maggiorenne, Horus affrontò Seth per vendicare suo padre e recuperare il trono. Ecco perché Osiride fu considerato il dio dei morti.

All’imbrunire Alicia osserva le acque oscure alla ricerca del suo Ka, il doppio che sopravvive alla morte.

Nella moltitudine dei templi visitati rimane assorta davanti ai dipinti in rilievo degli dei egizi, che possedevano un corpo fisico che si nutriva di alimenti, invecchiava, moriva, era toccato dai sentimenti,  rispondeva a un nome  e poteva  convertirsi in elementi naturali o animali. Dei le cui lacrime davano luce ad esseri e minerali, e resuscitavano i morti.

Le diverse guide ripetevano a memoria la loro biografia.

- Toth era il Signore della scrittura, del linguaggio e dei testi conservati nei templi;  il dio inventore della scrittura geroglifica, e scriba degli dei, il “maestro delle parole divine”, vegliava sul processo lunare e la conta del tempo. Atum era il creatore dell’universo, il re di tutti gli dei. Esisteva già quando non c’era nessun al mondo. Il primo dio creato da Atum fu Ra, il dio Sole, che ogni tanto discendeva dal cielo e si univa ad una donna mortale per dar vita alla stirpe dei re egiziani.

Iside era la dama dell’amore, dea della fecondità e della femminilità. Apofis era un serpente di più di sedici metri, senza occhi né orecchie, indistruttibile e poderoso, non poteva essere ucciso perché il ciclo solare si sarebbe fermato e il mondo distrutto.

Come in ogni mitologia, anche tra gli antichi egizi era necessario che il concetto del male esistesse perché il bene fosse possibile: tutti i serpenti, meno il cobra che era solare, rappresentavano l’ignominioso. I teologi egiziani credevano che quando il cielo si tingeva di rosso significava che Apofis era stato ferito e macchiava il cielo col suo sangue, e non era di buon auspicio.

Alicia si ricordò dei sanguinanti cieli madrileni dipinti da Goya che anticipavano l’avvento di un giorno soleggiato.

L’epopea che più la intenerì fu quella del bimbo sul loto, forma umana con la quale il volere del dio Sole creò il mondo.

- Dall’abisso liquido sorse un’isola chiamata Dell’Incendio con un serbatoio pieno delle acque del Caos sulla cui superficie fluttuava un loto divino. Il suo fiore fu fecondato da quattro degli otto membri della Ogdoada – coppia formata da maschi con corpo da uomo e testa di rana e femmine con corpo da donne e testa di serpente – che chiusero i suoi petali durante la notte. All’alba quando  si aprirono i petali azzurri sorse un bimbo che illuminò il mondo, creando le cose e gli esseri.

- Un mondo creato da un bimbo sarebbe più sensibile di qualsiasi invenzione divina – le commenta il relatore.

Durante i giorni in cui rimase su quell’imbarcazione, scendendo e salendo per le antiche città imperiali, ora paesi miserrimi, donde spiccavano quelle moli dei templi che ti schiacciavano, rimaneva imbevuta di racconti mitici, ripetuti dalle guide con la minuziosità di un’enciclopedia.

Dall’aeroporto  li avevano portati in autobus nella regione di Luxor, per prendere la mega imbarcazione una volta terminata la visita al tempio di Amon, nella regione di Tebe. Discendendo, una miriade di venditori  offrivano papiri fatti con fibre di banano,  falsi ma con bei dipinti. Ne comprò tantissimi da regalare.

Camminò per la famosa Via delle Sfingi dalla testa di montone e si sedette stordita. Per proteggersi dall’alluvione dei turisti si perse tra le colonne delle rovine sacre. I bassorilievi rappresentavano la storia dei templi, di re e regine, di sacerdoti, scribi e schiavi che in essi pregavano; leggende e costumi delle distinte dinastie.

Infastidita dal calore e dall’emozione, Alicia desiderò la pace della sua cabina mentre la luce si smorzava e il muezzin chiamava alla preghiera da una moschea lì vicino. Dopo una rumorosa e disordinata distribuzione dei passeggeri, arrivò alla sua suite al primo piano del battello. Sul letto le lenzuola erano state arrotolate simulando la figura di un cigno e l’accappatoio bianco riposava sul sofà con dei ganci neri posati sul cappuccio.

Era affascinata dalla tela di cotone e da ciò che vi era impresso. Ad ogni fermata del battello comprava galabie, pantaloni larghi e camicie con ai bordi dei geroglifici, mantelline di colore folgorante con gli dei egizi o i faraoni e le loro numerose famiglie.

Le era impossibile immagazzinare tutte le informazioni che riceveva in giornata; si concentrò nell’osservare quel mondo tanto lontano da lei. Voleva assolutamente fissare le immagini che le sue ambiziose pupille catturavano. Ormai non sapeva se andava per il Basso o l’Alto Egitto, ma non le importava. Non era egittologa, era lì per godere e non le interessava memorizzare nomi, né tanto meno capire l’orientamento dell’alveo del fiume e i giri del battello. Si lasciava trasportare, abbagliata sulla piccola terrazza della sua cabina dalle giunche  ondeggianti sulla spiaggia delle venerabili acque.

Fiumi e mari la portavano verso un mondo sotterraneo fresco e silenzioso.

In mezzo a quel colore e calore ricordò quanto si era emozionata davanti alle gelide acque del mare del nord, nella sua breve visita a Rotterdam.

Sempre immersa la sua memoria nel Rio de la Plata.  Il suo fiume sporco – il mare dolce – era presente come un tatuaggio nel territorio del suo corpo. In Spagna la entusiasmavano gli zampilli d’acqua delle cascate che scendono dalle falde delle sue montagne.

Mentre navigava sul Nilo pensava al suo ritorno in Argentina dopo molti anni di auto esilio e raccontava a entrambe le coppie  i suoi progetti e la felice prospettiva di giocare sotto gli alberi frondosi di Buenos Aires: a quelle fugaci relazioni si possono raccontare i più intimi aneliti, segreti raccolti nella penombra o nel giubilo del proprio cuore, ma che non si condividono con coloro con cui siamo in confidenza.

- Esagerati doni di natura che non hai mai potuto dimenticare – si dice – ricreandosi nel ricordo della sua città natale.

Era stordita dalla bellezza dell’Egitto. Quell’insufficiente viaggio di  due settimane era il suo commiato verso l’America.

- Da un terzo mondo all’altro – pensò.

Benché inquieta per la sua decisione non immaginava quello che la riguardava. Non contava l’usura delle relazioni e dei posti, preservati dalla nostalgia dei bei tempi.

- La memoria è anche una piccola anfora di putredine che non si può espellere. L’oblio dovrebbe essere anche passione…

La campana della cena interruppe i suoi pensieri.

 

II

 

Quando ritornarono al Cairo, il contrasto fu brutale. Dalla pigrizia del battello e dalla serenità delle acque passò al Caos urbano. Una disordinata moltitudine in continuo movimento: fumare, passeggiare, mercanteggiare. Confuse in una circolazione caotica le auto non rispettavano i semafori e gli incidenti senza conseguenze proseguivano senza soluzione di continuità. Il rumore si acquietava dopo mezzanotte. Quei rimanenti giorni che dimorò nella capitale, li trascorse nel Museo Archeologico. Non aveva particolari interessi nel vedere le mummie; la attiravano i busti in oro massiccio dei re e delle regine, la testa di Nefertiti, il sarcofago di Tut-Ankh-Amón, e gli scriba, senza i quali sarebbe rimasta poco intellegibile quella civiltà. Più che un museo apparivano recinti labirintici di un gran bazar.

Rimase ammaliata dall’affabilità della sua gente, dagli uomini che le sussurravano parole gentili nel dedalo del mercato di Kahilili, per gli infusi e  il caffè alla turca che le servivano i rispettosi camerieri del salone del the dove si rifugiava per riposarsi dal chiasso, con l’illusione di incontrare il romanziere Naghib Mafuz, ferito dai fondamentalisti mussulmani.

La polizia era una presenza pesante nelle strade. Un giorno il primo ministro Mubarak esce dalla sua dimora di Heliopolis verso il Parlamento. Kilometri di guardie vigilano e proteggono il passaggio del corteo. Sembra un imperatore messo in un’enorme  vettura di cristalli scuri. Impressiona.

Le cupole della gran moschea risaltano grazie all’alluminio che le incorona, al posto dell’argento che, secondo quello che si dice,  Anuar El Sadat utilizzò per la guerra dei sei giorni, contro Israele.  Rimane a lungo nell’intimità del suo silenzioso recinto. Contempla la città e il fiume dalla sua terrazza.

All’inizio del Cairo una costruzione la sorprende. E’ il cimitero dal quale hanno innalzato quella che chiamano Città dei morti dove migliaia di poveri vivono sopra le tombe e dentro le cripte. La guida non vuole dare spiegazioni. E’ una incommensurabile città di miseria, con elettricità e acqua potabile, dove Alicia non si avventura a passeggiare da sola.

La Sfinge con la sua testa umana e il corpo di leone e le piramidi di Cheope Kefren e Micerino, la colsero di sorpresa non solo per la loro imponente e precisa costruzione ma anche per la loro vicinanza alla città, alla fine del viale delle Piramidi. Estasiata si sedette sulla sabbia per contemplarle e lesse che l’antropologo Robert Bauval sosteneva che la disposizione delle tre coincidesse   con le stelle che formano la cintura di Orione, la costellazione che nella mitologia equivaleva ad Osiride, erano la metafora della porta che l’anima del faraone doveva oltrepassare per raggiungere l’aldilà. Si sentiva fortunata. Non entrò in Cheope, la intuizione dei sudori e degli umori umani in un recinto stretto e chiuso la fece desistere. Il sole la infastidiva ma non impediva che i suoi occhi catturassero tutta la bellezza possibile. Pensava alla perfezione del lavoro degli schiavi giudei che avevano caricato quei milioni di blocchi di pietra, almeno  due tonnellate ciascuno.

Era uno dei migliori viaggi della sua vita. Avrebbe abbandonato il paese con fame di più escursioni e il convincimento  che l’aveva appena scalfito, ma l’aspettava un altro grande fiume, quello della sua infanzia, che osservava, quando era bambina, seduta presso sua madre   sulle scalinate della Costanera Sur porteña in umidi momenti all’imbrunire con la luna piena, mentre si godevano rosse fette di cocomero dolce e lei sognava col fiume Nilo.

 

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Nota dell’Editore

Questa relazione si salvò dalle rovine dell’ Hotel Ramsés Hilton, una volta spente le fiamme che lo distrussero in modo accidentale. E’ quasi un miracolo che si siano salvate solo queste pagine. Nella lista dei morti e dei sopravissuti non risultava nessuna turista che rispondeva al nome di Alicia. In suo omaggio abbiamo deciso di pubblicarlo sulla nostra Antologia di anonimi con il titolo “Alicia dei fiumi”.

 

Dijo Heráclito que "el mundo es y será un eterno fuego vivo, que se enciende según medida y se extingue según medida".

- Así debió ser en la antigua Grecia de donde, dicen, provienen los valores fundamentales de nuestra civilización occidental que ya no parecen respetar los especuladores inmobiliarios -predicó el acebo, aseverando sus palabras con el movimiento acompasado de sus pinchos con frutos rojos.

- ¿Lo dices tú porque tienes madera pesada que no flota en el agua, que se usa en la ebanistería y protege a los humanos de brujas y encantamientos? -preguntó el pinsapo.

- Lo digo, abeto andaluz que creces en los burladeros de la Plaza de Ronda, tú que te conservas bien gracias al poco interés que han despertado tus aprovechamientos, por las noticias que me llegan de los últimos incendios de verano.

- ¿Por qué me hablas con tanta soberbia? - se lamentó el pinsapo - yo no tengo la culpa de que el hombre me haya puesto mote tan tonto.

- A ver, queridos amigos, si hay alguien aquí que pueda sentirse de mayor rango soy yo, con cuya madera fue hecha el Arca de Noé y los barcos de la Armada Invencible española, olé - exclamó, con tono alzado y sabiondo el roble, conocido entre los suyos como petracus, "el que crece entre rocas".

- Oh, oh, ya sabemos que eres el árbol sagrado en los juicios y juramentos, pero eso no te salvará del fuego inclemente -le replicó Al-Mais o El Almez- y no te olvides que yo soy el árbol de tronco elástico y duro, que resisto la sequía gracias a mis profundas raíces y que los hombres necesitan de mis frutos verdes cocidos para protegerse de la disentería.

- Mira, mira, soberbio, ya sabemos que tus frutos, parecidos a guisantes, son comestibles y que tu madera se usa en jardinería y en la fijación de laderas inestables, pero -se apresuró en formular el laurel- no debes olvidar jamás que yo soy el símbolo del triunfo y el amor.

- ¡Ya habló el engreído latino bacca lauri, lo que hay que aguantar! -protestó coquetamente la sabina.

- Muchacha, me parece oportuno que recuerdes la etimología de mi nombre, traducido para la posteridad como "bachillerato" dado que a los estudiantes que concluían sus estudios se les coronaba con mis hojas. Además, bien que os gusto para avivar el sabor de los guisos y salsas -le contestó dejando caer graciosamente algunas hojitas frescas y olorosas.

-Que te enteres -nosotros, los sabineros, que somos machos aunque tengamos un bellísimo nombre de mujer, conformamos bosques claros que resisten los más crudos inviernos. Te permito que me huelas, verás que soy tan aromático como tú. Y, además, por si no lo sabes, soy una reliquia de la era terciaria con mucho peligro de extinguirme por la difícil y retardada germinación de mi semilla, mi lentísimo crecimiento pues no me gusta envejecer y, y...

- Vale, vale, sabino, ya estamos en autos de que has sido victima de talas y pastoreos abusivos.

- Por lo menos, cuando me queman, ahuyento a los insectos.

- Ay, ay, qué tontos sois -dijo el longevo castaño- si vivierais mil años como yo, no os preocuparíais de establecer jerarquías entre nosotros. Todos venimos de la misma madre. ¿Verdad?

- ¡Qué razón llevas, hermano! -apuntó el abeto.

- Gracias por tu apoyo -le respondió el castaño- no podía ser de otra manera viniendo de ti, tan estético y protector que con tu piel los luthiers fabrican sus violines, además de guitarras y pianos.

- Qué lástima, amigo abeto, tu resina, paliativa de heridas y llagas, no me puede curar la grafiosis que produce embolia en mis vasos conductores de savia. Si mi enfermedad me extingue, no se podrán hacer más barcos seguros ni bonitas casas -se quejó triste el olmo.

- Oh, vecino olmo, quizá te sirva una infusión de mis frutos. Ya sabes que antiguamente se creía que devolvía la juventud y en Grecia, éstos eran quemados para combatir las pestes y ahuyentar demonios -se ofreció el enebro.

-También yo te ofrezco mi savia antirreumática y diurética y, además, mis hojas tiernas resultan muy ricas en las ensaladas -anunció el fresno.

-¡Humm!...No te olvides de contar que te usaban para fabricar horcas -le espetó el pino negro.

-¡Cotilla!; parece mentira que tengas valor como especie protectora del suelo porque tus raíces sujetan el suelo de las laderas, evitando derrumbamientos en las poblaciones rurales -defendió al fresno una bella encina con una copa de veinte metros de diámetro.

-Muy amable, divina encina, cuyas bellotas dulces alimenta al afamado cerdo ibérico -la piropeó el abedul.

-¡Y tanto! Regalo frutos desde mis precoces veinte años hasta los doscientos o trescientos que alcanzo en mi madurez -dijo casquivana la encina.

-Lamento interrumpir vuestro romance lisonjero, pero mis semillas, que como sabéis son los seres vivos alados más ligeros del mundo, vislumbran humos lejanos -advirtió el abedul con susto.

-Siendo tan amante de la luz, estarás contento de ver fuegos -arriesgó el serbal.

-Pero cómo puedes ser tan zafio -le replicaron varios al unísono-, bien se nota que sirves de cebo para cazar pájaros.

-¡Dioses!, no llegaré al otoño para desmocharme en leña y alimento del ganado -se lamentó el fresno.

-¿Qué haremos si no podemos huir? -gritó el abeto.

¡Nos devorarán las llamas!...¡Tengo sólo setecientos años, soy joven para morir! -gimió el castaño.

-Siempre pensé que mi tronco duro me sostendría hasta que me saborearan las aves a quienes alimento -se lamentó el almez.

El viento interrumpió su diálogo, mareándolos con las cenizas que traía, agrisando el oxígeno.

El fuego se abrió paso implacable, destructor.

El bosque tembló entero y todas las especies unieron sus ramas en un generoso intento de protegerse. Parecían sombras encendidas confesándose secretos.

Cuando el suelo quedó yermo un hombre recogió unos frutos dispersos del enebro y las guardó con dolor y nostalgia.

-Haré ginebra con ellas -dijo apretándolas con cariño, cobijándolas como un arqueólogo cuando descubre una reliquia antigua.-